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La composizione del timbro è divenuta un’opzione ordinaria, a disposizione di chi pensa e scrive la musica. Abbiamo acquisito una consapevolezza delle proprietà e dei descrittori del suono tale da consentirci una personalizzazione del rapporto con il timbro, e così ampia da dar vita ad approcci opposti e concomitanti.
Il repertorio dei suoni disponibili agli autori, infatti, abbraccia un territorio complesso ma circoscritto da due poli: da un lato i suoni già esistenti e pronti all’uso, dall’altro l’ideazione di timbri e strumenti personali; in mezzo, molte e diverse mediazioni, ognuna delle quali idonea a creare musica.
Per un/a autore/trice, oggi, è senz’altro possibile far buon uso di timbri già noti e compresi in un insieme pre-esistente (il flauto, l’orchestra a 2, il tipico suono della sintesi granulare e così via) e comporre ottima musica con essi. Da tempo, però, questa maniera non offre risposte convincenti alla mia urgenza. In questa dialettica fra due posizioni talvolta non conciliabili, il mio immaginario trova agio nella personalizzazione dei mezzi e nella ricerca sui suoni: in altri termini, il timbro non può essere dato, non è preconfigurato. Se il suono non diventa oggetto di studio compositivo, se il processo creativo non prevede un lavoro sulla peculiarità degli strumenti musicali, quel rapporto con il suono rimane in un contesto di predeterminazione. Il mio immaginario rischia cioè di avvertirsi eterodiretto.
Nella mia attività quotidiana ricorre un pensiero spontaneo: come tradurre quel suono specifico e concreto, che di volta in volta mi si palesa alla mente? Quale lavoro sui mezzi è necessario compiere, per trasformare con efficacia quella chiara immagine interiore di timbri e gesti? Queste domande trovano una più convincente soluzione se affrontate congiuntamente ad un tema centrale e più generale: per rappresentare sé stesso bisogna partire (anche) dal suono, e per tradurre la propria irriducibile immagine di suono bisogna elaborare i propri mezzi.
E’ in tal modo che la lavorazione degli strumenti e dei suoni, che precede o accompagna la loro organizzazione formale nello spazio del brano, diventa parte strutturale del processo compositivo.
L’intero processo così configurato coinvolge temi inerenti al timbro, ed altri meno prevedibili e solo apparentemente lontani da esso.
Il primo argomento chiamato in causa attiene alla personalizzazione degli strumenti. Come già sappiamo, il lavoro sulla liuteria è un fattore decisivo in questo contesto. I suoni che ho in mente non trovano soluzione negli strumenti acustici tradizionali, sebbene molto spesso prendano spunto da essi e dalle loro proprietà di base. Così, ad esempio, in Fourth Born Unicorn, brano per viola, ho usato guanti e ditali perché avevo fiutato ed esplorato le potenzialità inarmoniche e percussive dello strumento: i guanti aiutano me (ed il solista) a gestire con precisione il bilanciamento fra l’armonico e l’inarmonico; i ditali da cucito risaltano il modo d’attacco percussivo, oltre ad esaltare la brillantezza dello strumento ed il controllo dei glissati.
Per ragioni in parte coincidenti, in Fifth Born Unicorn, per violoncello trasformato ed elettronica, ho fatto risuonare non solo le corde, il ponticello, la cassa e tutti i segmenti visibili e raggiungibili, ma ugualmente l’anima del violoncello, l’attacca cordiera, l’anello dell’archetto e così via. Ogni dettaglio ha una propria identità che contribuisce al suono generale dello strumento. Con essi ottengo i timbri inizialmente ipotizzati e poi elaborati a contatto con lo strumento, anche grazie all’elettronica e a dispositivi scelti con cura (come, ad esempio, un nastro di stoffa strofinato sulle corde).
E ancora, in Keekee Bouba, scritto per voce trasformata e strumenti, ho scelto di usare due daxophones per garantirmi un dialogo diretto con la voce. Entrambi, la voce e i daxophones, sono intesi come meri strumenti generatori di suoni. La voce è capace di muoversi agilmente fra l’armonico e l’inarmonico, fra timbri stabili e spiccatamente instabili, fra inviluppi percussivi e senza fase d’attacco: le medesime qualità dei daxophones producono un dialogo che si fonda sull’analisi dei dati spettrali, per poi essere composto in un contesto di lucida allucinazione.
In ciascuno di questi ed altri esempi, i brani sono cresciuti anche durante le fasi di ricerca degli strumenti idonei a tradurre le mie inclinazioni di suono, così come nella fase di studio sugli strumenti poi prescelti.
Il secondo tema tratta infatti del rapporto diretto fra l’autore e i suoi mezzi. La traduzione minuziosa dei suoni, il controllo dei gesti che impegneranno gli esecutori e l’orchestrazione fra i vari strumenti implicati esigono un controllo più immediato del suono. Il contatto con gli strumenti già in fase di composizione del brano, è dunque un secondo elemento determinante per la riuscita del brano stesso. La gestione delle proprietà di dettaglio dei timbri, manipolati grazie ai loro descrittori, ha infatti imposto agli autori di giungere ad una consapevolezza la più completa possibile dell’atto performativo. Al tempo stesso ideatori, ricercatori, perfomers e producers del prodotto finale, i compositori osservano una lenta metamorfosi del proprio ruolo.
Il terzo ed il quarto tema, più complessi e legati ad altre più generali condizioni, sembrano essersi a poco a poco delineati all’attenzione della comunità musicale, grazie al repertorio quanto mai recente. La ricerca sulla liuteria, sulla tecnologia dei mezzi e sulla performance incrementa infatti il peso specifico del coté visivo, poiché oltre a scatenare una spontanea curiosità sulle abilità del performer alle prese con mezzi inusuali, disloca il prodotto musicale in un habitat provvisoriamente inverosimile. A tutta prima l’opera perde alcuni elementi di contatto con l’immaginario collettivo, per acquisire un carattere di paradosso in attesa di verifica: l’atto performativo congiunge dunque orecchie ed occhi dell’ascoltatore/osservatore con l’oggetto musicale, e lo stesso oggetto trova in questo modo un’eventuale conferma della propria efficacia.
Ma proprio la visibilità come materia della performance musicale, abborda spontaneamente un tema ancor più ampio, del quale abbiamo discusso per molti decenni: l’esigenza di aggiornamento, di rivitalizzazione della forma di concerto. Ciò sembra accadere in modo non del tutto previsto e calcolato. Il rinnovamento del parco strumentale, la metamorfosi degli esecutori in performers con un più ampio bagaglio di abilità, la spiccata personalizzazione del prodotto musicale hanno contribuito a trasformare, in modo al tempo stesso spontaneo e necessario, il momento performativo e la sua ricezione. Quel dibattito sulla forma del concerto tradizionale (mono-direzionato, forse inadeguato per tempi e luoghi di rappresentazione, etc) ha così trovato una parziale risposta, con argomenti in un primo momento non ipotizzati: il visuale si lega all’ascolto proprio a seguito del lavoro sul suono, ne esplicita degli argomenti, ne ravviva l’incanto e lo sbalordimento.
Cosa implica dunque la sentenza ‘un’opera, un suono’*?
L’attenzione non cada principalmente sulla potenziale ed infinita varietà di soluzioni timbriche abbinate all’immenso numero di opere che verranno, poiché essa tratta invece ed innanzitutto di quel tema centrale e decisivo: la composizione è presa di coscienza e rappresentazione della propria prospettiva. Per giungere a questo esito bisogna operare più che mai su ogni fase del processo creativo, passando anche attraverso l’elaborazione dei propri mezzi.
Io non sono solo nella forma, negli algoritmi, nell’organizzazione dei materiali scelti, ma trovo me stesso anche nei mezzi che mi aiutano a tradurre le immagini timbriche. Io sono il mio suono.
* debbo il titolo di questo breve scritto ad un interessante scambio di opinioni con Daniele Ghisi, il quale, durante i ‘Dialoghi sul comporre’ di fine 2016, mi chiese con arguzia: “ma dunque, proseguendo su questa strada della personalizzazione degli strumenti, giungeremo ad un’opera, un suono?”.
© 2017, giovanni verrando
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senza famiglia – lutherie & composition